Un'idea del lavoro diversa
di Francesco Padovan, 16 settembre 2012
È detta legge sui salari minimi quel tipo di legge che impone un tetto salariale sotto il quale il datore di lavoro non può scendere. Da tempo diffusa in America ed Europa, molto si preme oggi per una sua diffusione su scala massiccia, addirittura mondiale. Eppure, non tutti sono d’accordo: serpeggia il dubbio, tra certi economisti, che questo tipo di leggi, più che essere inefficaci, finirebbero addirittura per risultare dannose. Una facile obiezione, mossa dal liberismo alla legge sul salario minimo è che, imponendo un tetto salariale, si finisce inevitabilmente per ridurre l’occupazione. Se un paese come il Guatemala, ragionano i liberisti, con un dato livello d’occupazione e dei salari molto bassi, decide di imporre, per legge, un minimo salariale più alto, che dia dignità ai lavoratori guatemaltechi, il risultato gli si ritorcerà contro: le imprese concederanno sì salari più alti, ma per farlo, dato che la spesa in salari è fissa, dovranno ridurre il numero di lavoratori. E nel mirino del licenziamento finiranno inevitabilmente gli impiegati meno qualificati e la manodopera appartenente a minoranze ingiustamente discriminate, quali i lavoratori disabili o di etnie in minoranza. Fu con questi pensieri in mente che Milton Friedman sbottò clamorosamente, in una conferenza diventata ormai celebre, che la legge sui salari minimi era la legge più razzista che avesse mai conosciuto. Eppure la necessità di un salario minimo non sindacabile, tale da permettere al lavoratore una vita sana e dignitosa, è sempre stato uno dei principi fondamentali del Commercio Equo e Solidale. Stiamo forse condannando i lavoratori del Sud del Mondo alla nullatenenza ed alla discriminazione, proprio due dei mali contro i quali ci affanniamo tanto calorosamente a combattere?
Di fronte al problema il volontario in bottega tende a reclinare sulle motivazioni ideologiche. Davanti al politico di turno che ripete con arroganza che il lavoro non è un diritto ma un fattore produttivo -e che il salario va quindi fissato a qualsiasi livello le due parti siano disposte a concordarlo, come un qualsiasi prezzo di mercato- il volontario risponde determinato che invece il lavoro è un bene in sé, e che va tutelato al di là della sua importanza nella catena produttiva. Certo, molti di noi sono disposti a tollerare una certa differenza salariale tra manodopera qualificata e non; essa stimola un po’ di sana competizione e retribuisce maggiormente le mansioni più delicate ed importanti, quelle che richiedono l’assunzione di responsabilità e rischi maggiori. Ma chi sarebbe più disposto a sostenere che le responsabilità, la maggiore produttività e la “delicatezza dell’incarico”, giustifichino le differenze salariali tra un dirigente della Leman Brothers ed un professore di liceo? 4500: è la cifra sorprendente degli anni che occorrerebbero a quest’ultimo per mettere da parte il salario annuale del primo. Per lungo tempo ci è stato raccontato che stipendi, rimborsi e compensi straordinari erano dovuti al fatto che il lavoro delle classi dirigenti era un lavoro più importante e di “migliore qualità”: essendo sofisticato e difficile, -altamente qualificato è il termine che andava più in voga- contribuiva a creare, nella catena produttiva, un maggior valore. Dopo le tempeste finanziarie che hanno travolto Europa ed America, ormai persino i liberisti non ne sono più tanto convinti. Forse non è poi così assurda l’idea che la causa della crisi vada ricercata proprio in quest’atteggiamento elitario nei confronti del lavoro, questo trattarlo come una semplice merce, quasi come il prodotto di un qualsiasi macchinario. Sia essa vera causa o no, la situazione è ormai così critica da non trovare più giustificazione in nessun ragionamento economico: si tratta semplicemente di persone che, approfittando della propria posizione di forza, si sono appropriate di fette indebite della ricchezza altrui.
Ma al di là delle differenze ideologiche e dell’opportunità, anche politica, dell’uso di certe terminologie brutali, il problema è più profondo, e resta in realtà irrisolto: per quanto sia giusto eticamente riconoscere al lavoratore un salario dignitoso, è poi così conveniente imporlo per legge? Se fosse vero che, così facendo, si finisce per condannare i lavoratori più deboli al licenziamento, (per far fronte ai costi maggiori -ammonisce il liberista- le imprese finirebbero sicuramente per tagliare sul personale) allora l’unico risultato che otterremmo sarebbe trasferire ricchezza ai poveri rubando dai poverissimi, e la redistribuzione della ricchezza si concluderebbe in un tragico epilogo.
E tuttavia si può osservare che anche sul piano meramente economico l’obiezione del liberista non appare poi così scontata. Prima di tutto essa si basa sul presupposto che le imprese non ridurranno i margini (i profitti che traggono dall’attività produttiva). Se la spesa per il singolo salario aumenta a forza di legge, l’impresa sarà costretta a licenziare solo se appunto è intenzionata a tenere costanti i costi in salari. Se invece è disposta a sobbarcarsi un costo maggiore e a ridurre il margine sul singolo prodotto, riducendo così i profitti, allora i due effetti si compenseranno, ed il risultato potrebbe essere addirittura una occupazione maggiore. Perché mai i liberisti sono così convinti che una riduzione volontaria dei profitti da parte delle aziende sia un’impresa impossibile? Mero cinismo, pensano alcuni. Schietto realismo, risponderebbero loro. Malafede, sarebbe tentato d’aggiungere qualcun altro.
Sia come sia, i progetti di commercio equo sparsi per tutto il mondo hanno dimostrato che una realtà diversa è possibile. La filiera equa e solidale si basa sul principio che i margini di ciascun partecipante debbano essere contenuti, e più o meno uguali. In questo modo gli importatori solidali, Altromercato ed altri, hanno potuto aumentare le retribuzioni di tutti i partecipanti del Sud del Mondo senza per questo essere costretti a tenere ridotte le assunzioni: gli stipendi dei dirigenti ed i profitti sono stati semplicemente tagliati. Ed il tutto è stato fatto volontariamente. C’è di più: assumere più lavoratori, sia a Sud che nelle botteghe del mondo, è uno degli obbiettivi che tutti quanti, dal piccolo produttore al Mosaico a Trieste, ci impegniamo a perseguire. L’occupazione è stata quindi semmai aumentata, non diminuita, dal commercio equo.
Certo quindi, da un certo punto di vista, hanno ragione i liberisti: non è sufficiente fare le cose per legge. Un decreto che imponesse un aumento degli stipendi a forza, si risolverebbe semplicemente in una miriade di licenziamenti. Ma perché mai ciò dovrebbe scoraggiarsi e farci mollare tutto, ripiegando sul solito “lasciar fare al mercato”? Ben lontano dall’essere un esempio di come una regola, applicata al mercato, fallisce, ciò è invece il motivo per cui, oltre a farlo per legge, è necessario, da parte di tutti gli agenti dell’economia, un profonda rivoluzione culturale: occorre che la legge sia riconosciuta, fatta propria ed interiorizzata. Il commercio equo e solidale, agendo nella sua veste commerciale in un mercato libero come proposta alternativa ai canali tradizionali, contribuisce ogni giorno a creare questa opportunità. Nel farlo, si pone come concorrente all’impresa tradizionale, in un meccanismo di libera scelta su cui nessun economista avrebbe niente da eccepire. Al contempo, sensibilizzando, divulgando e lavorando sul fronte culturale, fa sì che l’esigenza di una rivisitazione dei margini, aumentando i salari dei piccoli produttori e riducendo quelli dei dirigenti al vertice, diventi una necessità sentita da tutti e condivisa; ciò affinché l’azione risulti veramente efficace ed il modello solidale si diffonda. Il tutto avviene secondo le leggi dell’economia in un mercato libero.
Ben lontano dall’essere quindi una critica al nostro lavoro, l’insufficienza di una legge che imponga salari minimi è invece uno dei motivi per cui il Commercio Equo è ancora necessario.